"Reality": la fortuna di incontrare i protagonisti
Impressioni dalla conferenza stampa di presentazione del film di Matteo Garrone, in cui si scopre che non solo il regista, ma anche gli attori sono "speciali"
25 settembre 2012
Matteo Garrone. Ho ammirato la semplicità dell'uomo durante la conferenza stampa di presentazione del film "Reality". Ci ha rivelato i suoi pensieri, le sue attese, i desideri nascosti dietro i 115 minuti di pellicola. Il suo bisogno di realizzare un lavoro di squadra in un continuo work in progress con sceneggiatori, attori, direttore della fotografia. Un modo “molto italiano” (la citazione della serie Boris qui è d’obbligo) di intendere il lavoro di regista.
E poi la sua originale scelta di girare il film in maniera lineare, ossia una scena dopo l’altra come indicato dal copione, per offrire la possibilità agli attori di abitare i cangianti sentimenti dei loro personaggi, mano a mano che la narrazione procede.
Aniello Arena. Ho ammirato un detenuto - che recita nel film - la cui gratificazione artistica non risiede negli applausi che strappa al suo pubblico a teatro o durante la proiezione del film, quanto nella possibilità di riacquisire, attraverso l’esperienza di attore, quella dignità di essere umano che aveva smarrito. Una lezione imparata così bene, che quando inopinatamente un giornalista gli ha chiesto - in maniera, questa si, davvero voyeuristica (sigh!) - le reazioni dei suoi compagni di carcere, ha preferito far silenzio.
Ho ammirato gli altri “umili” protagonisti, che costituiscono una famiglia allargata molto distante dai cliché di quelle patinate famiglie del Mulino bianco, e però così vera, spontanea e accogliente, portatrice di una fascino di genuinità così ben interpretato, anche dalle piccole bizze delle due figlie del protagonista, che sono la causa scatenante del viaggio che decide di intraprendere.
Ancora due annotazioni, senza entrare nel merito di un giudizio critico sul film che esula dagli intenti di questo articolo. La prima riguarda il soggetto del film. Gli sceneggiatori si sono ispirati ad una storia vera. La famiglia ha chiesto l’anonimato, ma, come ci ha rivelato lo stesso Garrone, più volte è stata sul set, per specchiarsi nei loro “avatar” e dare qualche suggerimento.
La seconda nasce da una risposta data da Garrone ad un giornalista: avevo bisogno di realizzare questa pellicola perché anch’io – ha detto il regista-, come i protagonisti del film sono continuamente ammaliato dai miti della nostra cultura capitalista che promette, con poco sforzo, ricchezza e vita facile.
Vorrei concludere con una mia personale riflessione sulla pellicola. Reality è una graffiante fotografia del mondo ibrido nel quale oggi tutti noi, ci piaccia o no, siamo immersi: un po’ fiction e un po’ realtà. Garrone, rovesciando di 180 gradi l’obiettivo della macchina da presa, rispetto a The Truman show, cerca di raccontarlo per darcene consapevolezza. Meriterebbe, a questo proposito, vedere il film solo per la battuta, ironica e raggelante al tempo stesso, che il protagonista dice alla moglie all’uscita dal provino per entrare nella casa del Grande Fratello: «ho raccontato a loro delle cose che neanche a mio papà avevo mai detto …»
E poi la sua originale scelta di girare il film in maniera lineare, ossia una scena dopo l’altra come indicato dal copione, per offrire la possibilità agli attori di abitare i cangianti sentimenti dei loro personaggi, mano a mano che la narrazione procede.
Aniello Arena. Ho ammirato un detenuto - che recita nel film - la cui gratificazione artistica non risiede negli applausi che strappa al suo pubblico a teatro o durante la proiezione del film, quanto nella possibilità di riacquisire, attraverso l’esperienza di attore, quella dignità di essere umano che aveva smarrito. Una lezione imparata così bene, che quando inopinatamente un giornalista gli ha chiesto - in maniera, questa si, davvero voyeuristica (sigh!) - le reazioni dei suoi compagni di carcere, ha preferito far silenzio.
Ho ammirato gli altri “umili” protagonisti, che costituiscono una famiglia allargata molto distante dai cliché di quelle patinate famiglie del Mulino bianco, e però così vera, spontanea e accogliente, portatrice di una fascino di genuinità così ben interpretato, anche dalle piccole bizze delle due figlie del protagonista, che sono la causa scatenante del viaggio che decide di intraprendere.
Ancora due annotazioni, senza entrare nel merito di un giudizio critico sul film che esula dagli intenti di questo articolo. La prima riguarda il soggetto del film. Gli sceneggiatori si sono ispirati ad una storia vera. La famiglia ha chiesto l’anonimato, ma, come ci ha rivelato lo stesso Garrone, più volte è stata sul set, per specchiarsi nei loro “avatar” e dare qualche suggerimento.
La seconda nasce da una risposta data da Garrone ad un giornalista: avevo bisogno di realizzare questa pellicola perché anch’io – ha detto il regista-, come i protagonisti del film sono continuamente ammaliato dai miti della nostra cultura capitalista che promette, con poco sforzo, ricchezza e vita facile.
Vorrei concludere con una mia personale riflessione sulla pellicola. Reality è una graffiante fotografia del mondo ibrido nel quale oggi tutti noi, ci piaccia o no, siamo immersi: un po’ fiction e un po’ realtà. Garrone, rovesciando di 180 gradi l’obiettivo della macchina da presa, rispetto a The Truman show, cerca di raccontarlo per darcene consapevolezza. Meriterebbe, a questo proposito, vedere il film solo per la battuta, ironica e raggelante al tempo stesso, che il protagonista dice alla moglie all’uscita dal provino per entrare nella casa del Grande Fratello: «ho raccontato a loro delle cose che neanche a mio papà avevo mai detto …»
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