martedì 23 aprile 2024
Rifugiamoci nell'arte. Non per soldi, ma per amore
di Chiara De Martino
In piena crisi ci sentiamo dire: "investire nell'arte è sicuro". Ma è la nostra umanità, non l'economia, a determinare il valore delle opere
30 settembre 2014

«Investire nell’arte è sicuro», si sente affermare in tempo di piena crisi. «L’arte è sicurezza, bene rifugio nell’incertezza generale». Paradossale paradosso: l’arte sinonimo di stabilità? In che tempo, in che luogo, un artista ha mai potuto sperare di sentirsi dire simili parole, allorché decideva di investire il suo futuro in questa disciplina all’unanimità amata e ammirata, eppure tanto incostante e crudele vero i suoi pochi, fedeli adepti? Straordinaria affermazione: secondo quali materialistici criteri varrebbe la pena di investire su di un’opera d’arte? Per quale logica utilitaristica un pezzo di tela macchiata è da considerarsi un buon investimento? Più di una casa in qualche rinomato centro storico? Più di azioni di prestigiose aziende quotate in borsa? Persino più dei titoli di Stato?


Certamente i criteri pratici per valutare un’opera d’arte non mancano: bisogna considerare dimensioni e materiale, la produzione – più o meno vasta – dell’artista, l’artista stesso, se si ostini ancora a rimanere in vita o sia già morto, così da permettere di poter ulteriormente valutare il quadro. Il soggetto, poi, se sia tipico o meno; l’epoca in cui l’artista ha realizzato il dipinto.

Basta, però, che l’opera sia di qualche grande artista, che già questi criteri vengono sconvolti, e tutto è da ricalibrare. In fondo non si tratta che di criteri accessori e superficiali, ma non condizione necessaria, né sufficiente a motivare il valore che è insito in un’opera d’arte. La quale contiene in sé tutta una serie di valori intrinsecamente legati a ogni essere umano; e da ogni essere umano evidentemente riconosciuti - più o meno consapevolmente - se nei secoli un’opera d’arte mantiene il suo valore e va, anzi, ad aumentarlo col tempo.


Se così non fosse, se il valore di un’opera d’arte fosse del tutto arbitrario, allora lo si sarebbe potuto stabilire per una qualsiasi altra cosa che non fosse un’opera d’arte. Si sarebbe attanagliati dal costante timore di un improvviso tracollo dei prezzi.

La moneta ha un valore riconosciuto valido universalmente oramai quasi solo per convenzione – partendo comunque dal valore di per sé riconosciuto ai metalli con cui vengono realizzati -, ma un’opera d’arte? Quale convenzione ne sancisce il prezzo? Quali criteri il valore? Eppure – nonostante non mi risulti che sia mai esistito un qualche trattato internazionale firmato a Tokyo, a Ginevra, o in qualche altra bella e prestigiosa città, per stabilire il prezzo di un quadro –  si tratta di criteri universalmente riconosciuti; altrimenti i nostri pratici, validi economisti, si sognerebbero di definirlo un "bene rifugio".

Altrimenti non avremmo tanti industriali e magnati della finanza, sceicchi, stilisti e imprenditori del lusso che decidono di investirvi. Così, tra le nuove star del collezionismo, ecco l’imprenditrice messicana della birra Maria Asuncion Aramburuzabala, i profumieri Florence e Daniel Guerlain, il finanziere cinese Liu Yiqian e sua moglie WangWei e l’uomo d’affari ucraino Victor Pinchuk.


Evidentemente non è l’economia a determinare cosa abbia valore e cosa non lo abbia; e in che gerarchia organizzare ciò a cui sia stato dimostrare un certo pregio: l’economia prende da una realtà già esistente al di fuori di sé oggetti dotati di valore - secondo altri criteri ad essa del tutto estranei e sconosciuti - e quantifica questo valore in termini di moneta. La moneta, insomma, quantifica diversi ordini di beni, non solamente quelli materiali.


Cosa ci affanniamo, allora, a ricercare le nostre regole di vita nell’economia? Perché perdiamo il fiato e la vita per correrle dietro? Non rischiamo, a volte, di correre dietro un fantasma? L’economia è molto semplicemente una scienza che parte da un presupposto già stabilito, che non ha alcuna possibilità di mettere in discussione : "posto che si debba ricercare la ricchezza…". A questo punto, "posto che si debba cercare la ricchezza", una logica puramente economica – guardandosi intorno, in una realtà di per sé già esistente  – capisce che un quadro vale un bel mucchio di soldi: un quadro, un oggetto che non risponde in alcun mondo ai criteri che oramai utilizziamo – almeno apparentemente, almeno a chiacchiere – per dirigere la nostra vita.

Non è l’economia che fa la nostra vita, siamo noi che facciamo, che determiniamo l’economia.


È la nostra umanità a dare valore alle cose: è il riconoscere che un’opera d’arte contiene in sé certi valori tipicamente umani in cui tutti ci riconosciamo, anche senza esserne consapevoli. Ed è così che ci si ritrova con grandi aziende - che si occupano solo di cose molto utili, molto pratiche – che acquistano vecchie e polverose opere d’arte per garantirsi qualche sicurezza in più, una certa stabilità. Per avere qualche garanzia. Certo, col rischio di arrivare a sopravvalutare certi artisti contemporanei, perché guidati da una smania puramente finanziaria.

Ma le bolle, prima o poi, scoppiano, lo scontiamo ogni giorno sulla nostra pelle da anni. Da quel famigerato 15 settembre 2008. Eccolo il valore dell’arte. Non è poi così inestimabile, né incalcolabile – o, almeno, non del tutto. E, a quanto pare, ritorna sempre, non tradisce chi vi pone fiducia a lungo termine. Perché non provare a investirci un po’? Perché non investire su di noi? Su ciò che ci fa venire voglia di continuare a vivere?

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