sabato 27 aprile 2024
Boros, l'artista che fa incontrare classico e moderno
di Chiara De Martino
Nato a Budapest, ama combinare elementi pittorici ed elementi grafici. Un po' raccontando, e un po' nascondendo
15 ottobre 2014

L’immagine è menzogna, che può scoprire la verità della vita, ma a differenza della vita - 

in cui la verità si rivela in seguito alle leggi di natura - qui possiamo vedere immediatamente.

(A. Boros)


Attila Boros nasce a Budapest nel 1971. Si laurea presso l’Accademia delle Belle arti dove si specializza in arte grafica. All’età di ventisei anni riceve il premio Kurt Lasswitz come miglior grafico. A trent’anni anni organizza una mostra personale e riceve il premio del pubblico presso il Műcsarnok, la Galleria Moderna di Budapest.

I suoi quadri combinano in modo unico gli elementi della pittura e della grafica. Nascono dall’accordo tra colori istintivi ed esperte basi grafiche. Il suo lavoro è frutto di un continuo sperimentare con coraggio, oltrepassando i confini dei generi.


Già da questa scarna biografia risalta una delle caratteristiche fondamentali della produzione dell’artista: il continuo e proficuo incontro tra i classici e sempiterni ideali artistici e le moderne tecniche di produzione – artistica -. Frutto di una sperimentazione nata nel secolo scorso, all’epoca della nascita delle arti applicate e delle avanguardie storiche.

Boros innesta la novità tecnica nell’ormai stanca e consumata pianta dell’arte e ci ripropone in maniere sempre nuove e mai scontate temi tanto antichi eppure, a quanto pare, ancora pieni di novità da comunicarci. I temi prediletti sono tra i più umili, semplici e comuni: muse, esoterico, musica, mediterraneo. Soggetti triti e ritriti. Che l’artista ungherese sa riportare a nuova vita conciliando il gusto dei nostri tempi al valore intrinseco e universale della vera opera d’arte. Insomma, fa quello che dovrebbe saper fare un vero artista.


Prendiamo, ad esempio, il dipinto Hárman, che in italiano sta a significare proprio Tre, il numero della perfetta armonia, della musica: un nome, un programma. Che l’artista riesce magistralmente a rispettare: tre sono i soggetti del dipinto, nello stesso tempo distinti e inscindibilmente uniti. Le forme sono morbide e sinuose, i colori caldi e accoglienti: i volti di donna ricordano decisamente un Modigliani, ma ancora più addolcito, ancora più morbido, immortalato nella sua intimità. Ogni donna è racchiusa in sé - come a custodire ciascuna il suo personale segreto, una nella musica, una nell’ozio e l’altra nell’attività - e al contempo in relazione, quasi si svelassero e completassero solo a vicenda.

La situazione è diametralmente opposta a quella a cui ci poneva di fronte Picasso nel celeberrimo Les Demoiselles d’Avignon. Con le quattro donne tutte voltate a fissare sfacciatamente noi spettatori, in pose rigidamente teatrali.


Eppure i richiami con l’arte del Novecento non si fanno certo mancare. La ricerca dell’armonia tra soggetto e spazio circostante – prima di tutto - , che ha segnato l’opera di numerosi artisti del XX secolo, tra cui sicuramente lo stesso Picasso. Una ricerca a cui diede inizio Cézanne; si pensi alle sue innumerevoli rielaborazioni delle Grandi bagnanti, nel continuo tentativo di fondere soggetto e spazio circostante in un unico equilibrio.

In questo caso, però, lo spazio perde qualsiasi parvenza realistica e si fa a immagine dei soggetti - piuttosto che viceversa - quasi una loro proiezione esterna, in un modo che richiama da vicino la corrente espressionista. La quale comprende, tra l’altro, i poco conosciuti ‘Fauves’ ungheresi.

È il caso dei ritratti di Ödön Márffy (1878-195), dove il soggetto è circondato da un tripudio di colori che sembrano estendere la sua personalità, la sua emozionalità al di fuori dei limiti della corporalità: diventano strumento per comunicare l’incomunicabile, l’a-razionale. Ciò che è invisibile agli occhi: l’anima del soggetto.


Forme, colori, dimensioni: nelle opere di Attila Boros sembrano puntare al raggiungimento di un tutto armonico. Soggetti e spazio esterno si macchiano l’uno dei colori dell’altro, influenzandosi a vicenda. Così accade in Szabadban, che nient’altro vuol dire se non All’aperto. Si intravede, infatti, in lontananza un sole nascente che accarezza dolcemente le dormienti – anche qui tre, sempre donne -; ancora perse in un mondo al confine tra il sogno, da cui vanno uscendo, e la realtà. Lo spazio esterno sembra essere espressione della loro condizione interiore: sembra volerci aiutare a carpire il segreto che ciascuna custodisce.

In Boros, in effetti, le donne sono il soggetto prediletto e tutte, bellissime e misteriose, sono immortalate in atteggiamenti raccolti e riflessivi. Incuranti dello spettatore, ma impegnate ciascuna a custodire il proprio segreto; mai capita che fissino lo spettatore con i loro enormi, eleganti occhi a mandorla, se non – raramente – di sottecchi o in tralice. Come in Augusztus, dove il volto della donna è ritratto in un atteggiamento meditativo decisamente da Madonna. Tutta la corporalità sinuosamente e sensualmente volta al raccoglimento.


Non solo donne, però, compaiono nelle sue opere. Boros sicuramente si interessa anche al legame uomo-donna, a scene corali. Nonché dalla figura dell’artigiano, l’homo faber: ciò che lui stesso è. Come l’artista ritratto in A kerámikus, Boros è in grado di raffigurare sulla tela l’uomo in tutta la sua complessità: non punta a usare i soggetti come semplice pretesto per la scomposizione delle forme, non ha bisogno di ridurre lo spazio a cubetti per esprimere il concetto di simultaneità o gli innumerevoli punti di vista da cui si può considerare uno stesso oggetto, né pretende di fare dell’arte la mimesi della realtà, la sua copia quanto più esattamente realistica.

In queste opere i punti di vista che contano sono altri: il suo naturalmente non manca; è lo sguardo amorevole e delicato che l’artefice dedica alla sua opera. C’è poi il punto di vista del soggetto ritratto, che trasmette la sua personalità al di fuori della propria corporalità, nello spazio circostante modellandolo a sua immagine e somiglianza. E – infine – quello dello spettatore che accetta di entrare in dialogo con l’opera. Un dialogo in cui ognuno dice qualcosa di sé, ma mai si può svelare completamente in tutto il suo mistero.


Riscoprire l’uomo. Questo è quanto fa Boros, con tecniche nuove, che rispondono ai nostri moderni gusti, - “a ciò che piace”, - e hanno un po’ il sapore di stampe e allegri manifesti. Con un rispetto del mistero e dell’indicibile umano che impedisce di poterci stancare delle sue tele. Che ci rivelano qualcosa, ma si ostinano a custodire gelosamente molto di più.

15 ottobre 2014
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