venerdì 26 aprile 2024
Per raccontare bene la famiglia bisogna metterla in crisi
di Adjovi Pascaline Affognon
Da Aristotele alle fiabe classiche, gli autori ci insegnano che ci coinvolgiamo - con il cuore e con la ragione - nelle storie che parlano dei nostri problemi e delle difficoltà che viviamo per raggiungere i nostri obiettivi
10 maggio 2015

«Dobbiamo raccontare in modo che faccia bell'effetto. Che faccia voglia di avere una famiglia». Ma è difficile perché raccontare, telling, richiede una capacità dello scrittore nell'attirare l’attenzione del pubblico dei lettori. Senza dubbio quello che rende interessante un racconto non è la monotonia, l’essere uguale, «ma proprio l’essere diverso», cioè il realismo coniugato con la creatività. Durante un recente dibattito che si è svolto nella facoltà di Scienze della Comunicazione della Pontificia Università Salesiana, un'interessante riflessione sul tema del raccontare la famiglia è stata proposta da Paolo Restuccia, regista Rai, esperto di scrittura creativa e docente dell'UPS.

Papa Francesco nella sua grande saggezza ha scelto quest’anno, come tema della Giornata delle Comunicazioni socili 2015, "Comunicare la famiglia: ambiente privilegiato dell’incontro nella gratuità dell’amore" «un tema molto interessante, ma molto difficile per farci una lezione di family telling, ha affermato il professor Paolo Restuccia. Evidentemente un tema difficile da narrare, non soltanto per ragioni sociali legate ai tempi e al degrado dei costumi, perché il degrado dei costumi c'è stato sempre. Sembra però che oggi, «la situazione sia più complicata, perché esiste un movimento culturale, che tende a smontare la famiglia tradizionale e a sostenere altre forme di famiglia».


In effetti, raccontare non è questione di effetti speciali, ma questione di voce, di cervello e di cuore, perché quello che rende interessante una narrazione è la capacità di «creare immagine con le nostre parole».  Ordinariamente, «non tutti i racconti sono fatti vissuti. Si può narrare anche solamente quello che si osserva. Grandi scrittori hanno narrato le ultime ore di persone che morivano e il pubblico ha apprezzato, ha creduto che è andata proprio così. Dunque, raccontare la famiglia oggi richiede un’arte che «faccia voglia di avere una famiglia» e certamente non è un’impresa facile.


Di solito, «tutte le favole finiscono con "e vissero tutti felici e contenti”: raccontano situazioni problematiche, ma appena il principe e la principessa si sposano, la favola finisce. Nessuno, mai, fa una favola in cui i protagonisti sono sposati e, fateci caso, quando in una favola ci sono protagonisti sposi fin dall’inizio, subito lei muore. “C’era un regina che amava tanto e che morì lasciando una figlia”…». Quasi tutte le favole hanno questo schema, a cominciare da Biancaneve.

Questo modo di strutturare i racconti riflette la stessa idea che il mondo ha della famiglia o della famiglia che si può raccontare: la difficoltà nella realtà di avere una famiglia felice. In genere «se dovete ricordare una storia, ricorderete la parte difficile, la parte delle difficoltà», ha ricordato Restuccia, «per esempio "Il canto di Natale" di Dickens: tutti sanno che cos’è successo al povero Scrooge, tutti conoscono proprio la figura di Scrooge e nel nostro immaginario, non si depositeranno tanto le cose buone dopo che è cambiato, quanto le cose cattive». In realtà, «il nostro immaginario non si ricorda delle cose buone, ma le parte cattive del racconto». Raccontare dunque è «creare qualche cosa a cui teniamo e poi metterlo in difficoltà».

Quindi «non è difficile raccontare. Bisogna capire solo una cosa: il bene di una famiglia felice è qualcosa da conquistare, come ci insegnano fiabe».

Però «c'è qualche cosa di etico in questo. Le nostre vite sono difficili; l’esistenza sulla terra è complicata. Vivere significa affrontare continuamente terribili prove. Non possiamo permettere ai nostri personaggi inventati di vivere meglio di noi. Non possiamo dare loro una vita più facile che quello che facciamo noi. Perciò l’unico modo di raccontare qualche cosa è di metterlo in crisi», sostiene ancora Restuccia.


Se raccontare è un’arte, è importante avere anche una metodologia. Secondo il Restruccia, la struttura drammaturgica è composta di tre atti, secondo il modello che viene dell’antica greca di Aristotele. Nel primo atto c’è un personaggio che sale su un albero. Nel secondo atto, il personaggio è sulla cima dell’albero e lo scrittore gli tira dei sassi. Nel terzo atto il personaggio scende dell’albero. Se scende vivo è una commedia, se scende morto, è una tragedia.

Fuor di metafora, "salire sull’albero" significa avere un obiettivo, ad esempio nel primo atto Romeo e Giulietta, protagonisti di un’opera importante di Shakespeare vogliono sposarsi; nel secondo atto "salgono sull’albero", soprattutto quando Giulietta capisce che questo Romeo è uno della famiglia nemica della sua; nel terzo atto muoiono tutti due. Dunque è un dramma.

Nel secondo atto, lo sceneggiatore comincia a tirare ai personaggi sassi via via più grandi, cioè a creare personaggi situazioni difficili.


Narrare partendo delle difficoltà non significa esagerare fino ad essere aggressivi, ossessivo o violenti. Ma «la narrazione ci dà la possibilità di raccontare la verità attraverso “la bugia”. Qualche cosa che non è mai successo, diventa vero. È il gran mistero della narrazione. Noi leggiamo con grande piacere delle storie mai accadute, dei personaggi ma esistiti». A volte le storie dei personaggi veri non ci interessano, non le leggiamo. In breve, «Aristotele dice che la narrazione è l’unica cosa che tiene insieme il pensiero e l’emozione, che vanno oltre la realtà, perché la realtà comporta troppi punti morti, che non possiamo rendere interessanti. Mentre invece nel narrare, noi possiamo dare qualcosa di più. La narrazione generalmente permette di mettere insieme l’emozione dell’avvenimento e il pensiero pensato durante l’avvenimento. Cosa che nella vita vera è difficile da fare».

Si può dire che narrare, è sapere osservare profondamente la realtà attorno a noi e dentro di noi e con coraggio dare nome alle difficoltà presenti nell’esistenza umana.

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