giovedì 25 aprile 2024
Ellis Island: la nostra Lampedusa, quando a migrare eravamo noi
di Giorgio Marota
La nostra storia racconta più di 24 milioni di emigrati in un secolo, di cui 5,6 milioni solo in America. Ricordarlo sarebbe uno straordinario atto di civiltà
21 maggio 2015

Il più grande esodo della storia moderna è stato quello degli italiani. Per la precisione, oltre 24 milioni di espatriati nell’arco di tempo che va dall’Unità d’Italia agli anni ’60 del ‘900. Francia, Svizzera, Germania, ma soprattutto Stati Uniti d’America, per quelli che furono cento anni di migrazioni che coinvolsero tutte le regioni d’Italia, dal nord al sud, senza legami territoriali. E se in un primo momento il peso del primato spettava al nord (con Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte che raccoglievano il 47% del fenomeno fino ai primi del ‘900), poi è toccato al sud, protagonista degli esodi di massa soprattutto da Calabria, Campania e Sicilia. Difficile a crederci oggi, quando all’ordine del giorno ci sono gli sbarchi di Lampedusa, ma ogni tanto ci dimentichiamo di quando ad essere accolti malamente eravamo proprio noi.


Ellis Island, 1892. Alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York, il mare divide un vecchio arsenale militare adibito a centro di smistamento da Manhattan. Da qui si vede la Statua Della Libertà, emblema del sogno americano: 1 km d’acqua tra la povertà e il benessere, tra l’illegalità e la legalità. Erano clandestini gli Italiani di allora, proprio come i Nordafricani di oggi: libanesi, tunisini, marocchini ed egiziani. Anche loro, i nostri nonni, bisnonni e trisavoli, venivano messi in quarantena, trattati in molti casi come bestie. Insomma, il primo approccio con l’America non era tutto rose e fiori come immaginavano e in tanti casi il rischio concreto era quello dell’espulsione. E la statua della libertà l’avevi solamente vista, senza avvicinarla mai.


Ce lo ricordano i cultori della memoria storica del nostro Paese, oggi messi ai margini da una società che non ne vuole sapere di guardarsi indietro. Per molti, del resto, un immigrato morto in mare vale un posto di lavoro in più per un italiano. “Siamo accoglienti se ricordiamo la storia”, ha giustamente sottolineato Marco Impagliazzo sulle pagine di Avvenire, invitandoci a recuperare quella “cultura dell’umano”, oggi troppo spesso dimenticata. Una storia che si studia poco e male, persino a scuola. Come possiamo allora pretendere che i nostri giovani crescano coltivando la tolleranza e il rispetto? Poveri, braccianti, immigrati, bestie da soma, delinquenti e ladri, purtroppo lo siamo stati anche noi, o almeno così venivamo considerati dagli americani. Negarlo è un reato.


Per la cronaca, Ellis Island, la maxi-Lampedusa degli italiani, ha chiuso nel 1954. Ora c’è un museo storico, alla memoria dei tanti immigrati che hanno cercato fortuna in America. Molti italiani, oggi turisti, cercano lì le proprie radici, le storie dei loro nonni. Lontano da noi, c’è un Paese che nonostante le proprie difficoltà e le tante contraddizioni ha la forza di celebrare i suoi immigrati, i cui discendenti oggi formano quel fantastico melting pot di cui gli Stati Uniti rappresentano un modello.

Chissà se un giorno anche noi, lontano anni luce dai dibattiti razzisti che impazzano su televisioni e social network, recupereremo la nostra memoria storica. Ogni tanto dovremmo ricordarci che su quei barconi, oggi sulle coste italiane, ci sono gli stessi poveri che cent’anni fa cercavano in America un porto sicuro per sfuggire da fame, guerre e miseria. Già ricordarlo sarebbe uno straordinario gesto di civiltà che renderebbe giustizia al nostro passato.

21 maggio 2015
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