giovedì 25 aprile 2024
Aylan, perché il simbolo ha messo da parte la deontologia
di Ermanno Giuca
Per il sociologo Andrea Pogliano la foto del piccolo Aylan ha rotto la retorica del “buonismo dell’accoglienza”, lasciando spazio ad una rappresentazione della morte priva di pietismo. «È una foto di immigrazione. Meglio ancora: condensa guerra e immigrazione»
14 settembre 2015
La foto di Aylan, il bambino siriano di tre anni trovato morto annegato sulla spiaggia della Turchia, ha riaperto il dibattito sulla possibilità di mostrare o meno, sui media, immagini di minori così crude e strazianti. Il direttore de La Stampa, tra i pochi quotidiani a pubblicare in prima pagina la foto di Aylan, scrive così ai suoi lettori: «nascondervi questa immagine significava girare la testa dall’altra parte, far finta di niente; qualunque altra scelta era come prenderci in giro, serviva solo a garantirci un altro giorno di tranquilla inconsapevolezza». Gli fanno eco le grandi ong internazionali. L’Unicef attraverso il suo portavoce ribadisce che la foto andava postata, affinché «il dramma di tanti bimbi innocenti non resti taciuto». Di “sofferenza silenziosa” parla Valerio Neri, direttore di Save the Children che poi aggiunge: «è questa la risposta che l’Europa è riuscita a dare a chi fugge da guerre, violenza e fame, una risposta tardiva ed inadeguata». Actionaid Italia, più critica per la crudezza dello scatto, cita Dostoevskij: «hanno pianto un po’, poi si sono abituati. A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo».

Il dramma dell’immigrazione, incarnato in un cadavere di tre anni arenato su una spiaggia turca, è ormai noto a tutti. Ma lo sarebbe stato ugualmente senza la foto di Aylan? Perché non ci hanno scosso (o ci hanno impressionato meno) le tante foto di migranti stipati sui barconi o in coda sui moli dei porti siciliani? Come spiega Andrea Pogliano, docente di sociologia ed esperto di fotogiornalismo, esistono due serie di fotografie con il piccolo Aylan: «la prima comprende anche il poliziotto turco, l’altra invece lo esclude, mostrando solo il cadavere del bambino siriano. Solo il primo scatto include il gesto pietoso all’interno della fotografia, senza demandarlo interamente allo spettatore. Quest’ultima immagine non mostra il volto del cadavere: subordina la rappresentazione della morte alla rappresentazione della pietà».

Questa prima immagine – dice Pogliano - anche se deontologicamente più corretta, (perché non mostra il volto del minore) «avrebbe finito per ricordare le tante immagini già mostrate di bambini soccorsi, tenuti in braccio da uomini della marina militare, finanzieri, carabinieri o poliziotti sui moli del Sud Italia. La morte, invece, sebbene sia stata spesso evocata a parole, non si è quasi mai vista in questi decenni di immigrazione. La morte è stata a lungo sostituita visivamente dalla pietà, dal gesto caritatevole: dal regime visivo dell’umanitario. Questa sostituzione ha prestato il fianco a tutta la retorica sul “buonismo dell’accoglienza”». Con la strage di Lampedusa dell’ottobre 2013 la morte è stata resa nota a tutti, in quei corpi galleggianti che hanno creato tanta indignazione e coraggio per avviare l’operazione Mare Nostrum.

Allora ecco emergere le motivazioni che hanno condotto alla pubblicazione della seconda foto. «La rappresentazione della morte senza la rappresentazione della pietà porta un discorso che è rimasto taciuto troppo a lungo nel racconto dell’emigrazione/immigrazione. Non è un discorso indiretto, che vira sulla nostra solidarietà, i suoi pregi e i suoi limiti. È invece un discorso diretto, su quel dramma e su di noi che lo guardiamo da casa. Ne usciamo spogliati di quella visione da riunione di condominio (casa nostra, casa loro); sporchi, nella nostalgia per il piccolo mondo antico, ora che ci si accorge del prezzo che assume l’appagamento di questo sentimento; persino ridicoli nell’usare la metafora idraulica, propagandando che si possa fermare l’immigrazione».

Il corpicino di Aylan, secondo il sociologo, sembra far cessare quel derby tra “buonisti” e “razzisti” alimentato da schieramenti politico-ideologici. «Si scopre così che le vittime innocenti di guerre sporche e i clandestini brutti sporchi e cattivi possono essere la stessa cosa e proprio per questo può aprire delle crepe in quel muro politico-mediatico che ci ha abituato a vedere gli immigrati senza vedere gli emigrati. Magari non cambierà troppo la politica e le opinioni, ma potrebbe innescare un processo. Le icone, spesso, sono servite a tale scopo». La foto di Aylan è diventata un simbolo, ha scosso la politica interna di alcuni governi europei e incoraggiato altri a fare di più. Mario Calabresi a conclusione del suo editoriale del 3 Settembre auspicava: «è l’ultima occasione per vedere se i governanti europei saranno all’altezza della Storia». Potremmo chiederci quante altre 'ultime occasioni' ci saranno prima che le cose realmente cambino.




14 settembre 2015
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