giovedì 25 aprile 2024
Burundi: il conflitto è sempre più duro. Ma l'unica via è il dialogo
di Dieudonné Niyibizi
Quasi ogni mattina si trovano corpi senza vita sulle strade, ma non si tratta di un genocidio. Anzi, questa parola può essere molto dannosa. E l'unica via di uscita è il dialogo
28 novembre 2015


La situazione politica in Burundi è peggiorata dal 26 aprile 2015, quando l’attuale presidente Nkurunziza ha presentato la sua controversa candidatura al terzo mandato. Quasi ogni mattina si trovano corpi senza vita sulle strade. Alcuni quartieri si sono mostrati vigorosamente conflittuali e oggi i ragazzi sono dotati di armi e sparano sulla polizia. Si sente dire che nei Paesi vicini  si organizzano milizie e questa situazione ha generato un clima di tensione e di paura. Alcuni oppositori parlano di un genocidio in gestazione. Però l’uso di questa parola “genocidio” è allarmante e rimane controverso.


Un passato carico di violenze Già nel 1961, un anno prima dell’Indipendenza, la popolazione burundese è entrata in una logica di violenze politiche, militari e poi civili. Così, nel 1962, 1965, 1968, 1972, 1988, 1991, 1993-2005, senza mai riparare i danni passati, le violenze si sono ripetute, costringendo all'esilio migliaia di persone, mentre altri si sono raggruppati nelle zone interne, più protette. Questi ultimi 12 anni di guerra civile (1993-2005) hanno lasciato un orrore nei cuori. I piccoli hanno visto i grandi morire e viceversa. L’ultimo movimento armato ha ottenuto il governo solo nel 2008. Tanti hanno rischiato la morte. Tutti hanno paura della guerra. I beni sono stati distrutti e rubati. Tante sono le famiglie rimaste senza tetto. Parlare di guerra in Burundi crea una psicosi nei cuori.


Cuori feriti e tutti vittime La lettura psicologica del popolo burundese è scoraggiante. Infatti il tempo non riconcilia, una nuova generazione non dimentica il male subito dai genitori. Dopo cinquanta anni, si ricorda tutto. Hutu e Tutsi sono entrambi vittime dei loro fratelli. I cuori sono stati feriti e sanguinano ancora. Quasi ogni famiglia ha perso una persona e i traumi non mancano. Da 2005 al 2010, la popolazione ha goduto una progressiva diminuzione della distanza tra le etnie. Il Governo ha istituito una Commissione per la Verità e la riconciliazione per statuire sui crimini commessi degli anni 1962-2008. Un processo di riconciliazione appena iniziato e che deve risvegliare tutto per rinfrescare la memoria, liberare la parola per arrivare alla verità. La Chiesa cattolica ha organizzato un sinodo per la riconciliazione e si è sentito un desiderio ardente di guarire, di rinascere, di scaricare il peso del passato. Però, è rimasto a metà strada. Ci si sente ancora vittime del passato e si nutrono aspettative per una certa forma di giustizia. I cuori non sono tranquilli, hanno paura di rivivere i momenti passati di violenze. Le parole usate, il genocidio annunciato toccano piaghe sanguinanti.


Un rischio di violenze a larga scala? Il terzo mandato del Presidente è stato motivo di sollevazione di un certo numero di burundesi. Adesso la situazione è diventata complessa.La paura della guerra ha fatto sì che più di 200 milla persone abbiano lasciato il paese, soprattutto quelli che erano in zone di dimostrazioni o vicine alle frontiere con il Ruanda, la Tanzania e la RDC. Questa paura è stata aggravata dei gesti di intimidazione e da una psicosi creata dei media. In questa parte dell’Africa girano tante armi. Nel Congo vicino, i rapporti dell’ONU parlano di 70 gruppi armati, mentre le frontiere sono porose. In Burundi, ci sono armi delle mani dei civili. I processo di disarmo è ancora in corso. L’esercito e la polizia burundese sono composti secondo le proporzioni consentite tra le due etnie ieri opposte. Il governo e tutte le istituzioni politiche importanti dello Stato rispecchiano equilibri etnici.Gli oppositori al governo di Bujumbura sono Hutu e Tutsi. Lottano per il rispetto dei principi democratici. Quindi, il sentimento condiviso di vittima, la paura, le fobie, una giustizia sempre attesa alimentano un rischio di violenze a larga scala dopo un qualsiasi evento che possa fare da innesco. Dopo dieci anni di populismo del presidente Nkurunziza, questi 5 mesi di crisi hanno fatto si che, mentre alcuni lo hanno odiato, altri si sono attaccati ancora di più a lui. Il comportamento della popolazione con le sue frustrazioni, dell’esercito nella sua composizione paritaria di Hutu e di Tutsi, della polizia con l’immagine hutu che preso questi ultimi 5 mesi, dei ragazzi hutu e tusti con le armi in mano sono imprevedibili e caotici. Un genocidio? Si rischia piuttosto una terribile violenza che nasconderebbe una forma di vendetta e di auto-protezione.

Questa situazione distingue il Burundi del 2015 dal Rwanda del 1994. Il paragone tra i due è una via semplicistica o allarmistica, che alcuni media mainstream hanno evitato di fare e specialisti della regione come Jean Pierre Chrétien della regione hanno proibito. Infatti, la parola “genocidio”, usata per descrivere questa situazione, allarma e getta sull’opinione internazione un’allarma di emergenza. Ricorrere a questa chiave di “genocidio” di cui il significato è ampiamente etnica è pericoloso perché “etnizza” la situazione già delicata.

Fare uso di una retorica di guerra e di terrore indebolisce di più i legami sociali. Di fronte ad una situazione così esplosiva, gli uomini politici e i media internazionali devono procedere ad una scelta giusta delle parole che usano, pesarle, pensare sette volte prima di parlare.


Quale via di uscita da questa situazione? La guerra civile che ormai è già cominciata non sarà vinta con le armi né con il braccio di fero da parte dei protagonisti. Più di duecento morti sono stati registrati, senza contare i poliziotti che la deontologia del corpo tiene a nascondere. La tensione cresce giorno al giorno e le famiglie piangono le loro vittime. La fobia e la rabbia risvegliano i traumi degli anni 90. Chi vuole aiutare il popolo burundese gli trovi una via pacifica e non armata. Creare una milizia, significa dare fuoco alle polveri. Accorciare il processo in qualsiasi modo rischia di infiammare il paese. La soluzione deve assolutamente venire fuori da un dialogo tra Burundesi. La storia recente burundese è un modello di dialogo, di ascolti vicendevoli e di concessioni politiche. Il Burundi ha fatto un passo sulla via della riconciliazione, tanto che chiamarsi Tutu e Tutsi stava diventando un motivo di fierezza e non un'autocondanna: occorre riprendere una via che salva le vite, risparmia i beni, risana la società e offre una soluzione duratura.

28 novembre 2015
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