giovedì 18 aprile 2024
Sopravvissuta per errore, credo che il futuro sia nel dialogo. Anche in Rwanda
di Veronica Petrocchi
Vent'anni dopo il genocidio dei Tutsi, il conflitto è ancora aperto, ma una nuova generazione crede nella pace. Storia di Cyizere, che vuole insegnare il futuro ai bambini
9 dicembre 2015

Lunedì 23 novembre 2015 l’associazione Ibuka Italia è stata ricevuta dalla Presidente della Camera Laura Boldrini, per riconoscere la sua grande opera di sostegno alle vittime del genocidio in Rwanda (aprile – luglio 1994). L'associazione è stata creata dai sopravvissuti per poter dare conforto a coloro che, in pochi mesi, avevano perso tutto, anche la dignità. Ibuka si è proposta come punto di riferimento per donne e uomini soli, cercando, riuscendoci, di evitare la vendetta e ulteriore spargimento di sangue.


Durante il genocidio i cadaveri venivano gettati in fosse comuni e l'associazione ha sostenuto la ricerca dei corpi per restituirli ai familiari e per dare loro una degna sepoltura. Un'altra battaglia che Ibuka sostiene in tutto il mondo è quella di scovare e denunciare coloro i quali negano il genocidio rwandese. Infatti, subito dopo il genocidio, molti Hutu, per paura di essere catturati dai Tutsi e ovviamente essere uccisi, scapparono e si rifugiarono in Europa, in particolare in Italia, Francia e Belgio e da qualche tempo praticano il negazionismo, cercando di capovolgere la realtà dei terribili accaduti e poter ingannare l'opinione pubblica. Per questa occasione ho incontrato una ragazza rwandese, attivista di Ibuka, da molti anni in Italia, studentessa universitaria, che ha vissuto sulla sua pelle tutto il dramma e la schizofrenia della guerra etnica tra Hutu e Tutsi.


Il Rwanda è uno stato dell’Africa orientale, compreso tra l’Uganda, il Burundi, la Tanzania e la Repubblica Democratica del Congo. Originariamente Hutu e Tutsi vivevano pacificamente e queste non erano altro che una denominazione che descriveva lo status delle persone: gli Hutu erano prevalentemente agricoltori, di statura più bassa e robusta, mentre i Tutsi si occupavano dell’allevamento ed erano più alti e snelli. Durante il XVIII secolo, il Rwanda godeva di un regime centralistico caratterizzato da una società suddivisa gerarchicamente. Nel 1900 iniziarono a giungere nel territorio centro-africano i colonialisti europei, in particolare belgi, francesi e missionari cattolici i quali, portatori delle nascenti ideologie razziali, attribuirono ai termini “Hutu” e “Tutsi” significati differenti; imposero un governo Tutsi, per la loro fisicità, a loro dire, più europea, facendoli coincidere con la nuova élite governativa, mentre da quel momento in poi con la parola “Hutu” si sarebbe intesa la popolazione comune. Secoli di storia e gerarchie sociali furono cancellati in un attimo e negli anni il rancore e le controversie politiche-economiche sfociarono nell’odio. I Tutsi divennero il nemico da combattere, da eliminare, senza alcuna pietà neanche per donne e bambini.


Cyizere (in rwandese significa “speranza”, così la chiamerò per motivi di sicurezza), oggi ha 26 anni, ha occhi grandi e pieni di vita che non passano inosservati, ma soprattutto ricchi di speranza, occhi che portano e porteranno per sempre le urla e le immagini terribili di quelle notti. Alla mia prima domanda, "sei Hutu o Tutsi?", Cyizere mi risponde in un modo che mi lascia subito di stucco: "Sono rwandese, non ha importanza se hutu o tutsi, non fa differenza; è come se ti chiedessi se appartieni all’impero romano o a quello papale. Sono ormai delle classificazioni arcaiche, che non hanno più senso, continuare a sentirsi Hutu o  Tutsi alimenta odio e razzismo nascosto".


Da chi è nascosto questo odio?

"Da un lato esistono ancora estremisti Hutu che vorrebbero generare nuove tensioni per riacquisire il potere, dall’altro abbiamo una parte dei Tutsi che si è avvicinata al movimento dei “Salvati”,si piangono addosso, nel giorno della memoria ricordano le vittime e le atrocità, fingono di aver perdonato ma non hanno alcuna intenzione di reagire , anzi usano il genocidio come scudo per non andare avanti. Altri Tutsi e Hutu, si sono formati, sia studiando sia lavorando su sé stessi, per collaborare insieme e ricostruire il Paese. Nella realtà secondo me c'è ancora tanta strada da percorrere; infatti quando in famiglia, raramente, si parla del genocidio, ascolto sempre parole dure e commenti razzisti. Quando chiedo spiegazioni, oppure le motivazioni per tali insulti, mi viene detto di stare zitta o di andare a letto".


Sicuramente non si può dimenticare, ma potrai perdonare queste brutalità?

"Onestamente non posso perdonare azioni che ancora oggi, a ventisei anni, non ho capito. Nessuno mi vuole spiegare, l’idea che mi sono costruita viene da mie documentazioni, dalla mia sete di verità e libertà. Libertà da preconcetti, pregiudizi, appartenenze etniche. Vorrei arrivare un giorno ed essere completamente libera da una cultura in cui il rispetto per chi è più anziano impedisce ai giovani di fare domande o opporsi al suo pensiero. L’anziano non può essere contraddetto, ciò che dice è legge. Dopo anni di notti insonni, ho imparato a lavorare su me stessa e a “filosofeggiare” sulla mia condizione. Non posso convincere a perdonare donne che sono state picchiate, violentate, hanno visto uccidere i propri figli o il marito, ma consiglio di non rimanere chiusi in se stessi e di uscire fuori, affrontare la vita, iniziare a vivere veramente".

 
A distanza di venti anni dal genocidio quali sono i tuoi obbiettivi?

"Io credo che, come dice Papa Francesco, ognuno di noi ha una missione. La mia seconda vita mi è stata donata da Qualcuno. Non dimenticherò mai una notte in cui gli Hutu presero me, mia sorella e tante altre bambine, ci fecero sdraiare a pancia in giù e iniziarono a picchiarci; poiché mi credettero morta uccisero la bambina accanto a me e mi lasciarono lì. Solo dopo un po’ sopraggiunse una suora di un convento lì vicino e mi portò con lei. Sto vivendo una seconda possibilità e quindi la mia missione, il mio sogno è tornare in Rwanda e fare l’insegnante, perché so quanto fa male avere delle domande e non avere nessuno che ti da risposte. Voglio diventare, per le nuove generazioni rwandesi, un punto di riferimento, possibilità che io non ho avuto".


Quanto è importante l’educazione al dialogo, per superare definitivamente queste ostilità?

"Senza dialogo e soprattutto senza una vera propensione alla comunicazione, sia Tutsi che Hutu saranno responsabili di un altro genocidio. È fondamentale ripartire dall’educazione dal basso, puntare ad una rieducazione della società. Non dobbiamo delegare questo compito al Governo attuale e accusarlo, bensì dobbiamo ammettere che la nostra fragilità sociale e un eventuale colpo di Stato, genererebbe le basi per un altro sterminio, e poi un altro ancora, senza fine. La nostra priorità deve essere la creazione di un Paese che realmente vuole lasciarsi alle spalle anni di sangue, omicidi tra mogli e mariti, razzismo e odio".


Oggi in Rwanda il governo è sotto la guida del Presidente Paul Kagame, cosa ti aspetti per il tuo Paese? "Senza dubbio sotto la guida di Paul Kagame, anche se tendenzialmente dittatoriale, il Paese sta vivendo un momento di pace ed è lo Stato centro africano che gode di una ripresa economica sostenuta. Mi auguro che nel tempo il Governo si apra ad una maggiore democratizzazione e proponga una politica del dialogo e di una educazione sociale finalizzata alla pace. Una pace tra etnie che per secoli hanno vissuto serenamente e che, a causa del potere e della voglia di comandare, hanno generato barbarie senza precedenti. Il mio sogno è che il Rwanda venga ricordato come un Paese di giovani amanti della cultura e perseguitori di valori come la vita e la libertà; quel profumo di libertà che da piccola, durante le lunghe notti passate nascosta negli scantinati, mi regalava solo un libro. Posso dire oggi, a ventisei anni, che l’amore per la lettura mi ha portato in Europa e mi ha salvato la vita".

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