giovedì 25 aprile 2024
Perché i poveri perdonano e chiedono perdono
di Jean Tonglet
La misericordia è probabilmente il bisogno essenziale, l'attesa più profonda dei poveri. Riflessione di Jean Tonglet a partire dal pensiero di Padre Wresinski
10 marzo 2016

Durante il giubileo della Comunità dell'Università Pontificia Salesiana del 9 marzo scorso, dedicato ai "Volti della Misericordia", è interventuto Jean Tonglet, delegato di ATD Quarto Mondo, il movimento internazionale fondato da Padre Joseph Wresinski.

Padre Wresinski è una figura profetica del novecento: alcuni suoi libri, come "I Poveri sono la Chiesa", sono tradotti in italiano e recentemente è uscita la biografia di Georges-Paul Cuny, "L'uomo che dichiarò guerra alla miseria" (ed. Paoline, 2016). Nato in Francia nel 1917, sposò la causa dei più poveri, tanto che nel 1956 fu mandato dal suo vescovo al “Campo dei senza tetto” di Noisy-le-Grand, nella regione parigina. Lottò sempre insieme a coloro che  si trovavano in povertà estrema, per dare loro dignità, per difendere i loro diritti, per far sentire la loro voce fino all'ONU, all'Unione europea, al Consiglio d'Europa, al Vaticano, all'Eliseo.

Riportiamo qui l'intervento di Jean Tonglet, su "Miseria e Miericordia".


Padre Joseph, pur non essendo un intellettuale, un teologo- aveva studiato poco -, ci ha lasciato un ampio magistero. Alcuni libri, articoli, interviste, ma soprattutto un insieme di scritti o di parole registrate, in grande parte ancora inedite: omelie, conferenze, incontri con i volontari del Movimento, ritiri, prediche, ecc… Quello che caratterizza quel magistero è il suo ancoraggio nella vita dei poveri. Non è mai una teoria, un ideologia. Parte della vita concreta delle persone che vivono nella povertà estrema, nella miseria, una vita che padre Joseph ci aiuta a capire con il suo sguardo particolare che trova la sua origina nella sua esperienza personale della miseria, da bambino nella sua propria famiglia e da adulto, attraverso una vita condivisa con i poveri di Noisy-le-Grand prima e poi di tutto il mondo. Per affrontare il tema, vorrei partire da un testo di lui. Si tratta di uno dei messaggi che scriveva tre volte l'anno agli amici del Movimento.Quel testo è intitolato: Sapevano che i loro genitori s’amavano (estratto di Parole per il domani, Joseph Wresinski, Città Nuova, Roma, 2001).


«Da molti mesi c’era nell’aria qualcosa. La situazione era diventata tale che l’uomo non poteva più sopportarla, perché la disoccupazione, la fame e lo sbandamento della famiglia l’umiliavano. Un giorno era partito, e, da tre settimane, era fuori, i vicini dicevano: «con un’altra»; la moglie diceva: «forse no ». Quella sera tornò per prendere le sue cose. Avvertito dai viciini, ero venuto anch’io ed ero rimasto lì, in piedi, in mezzo alla stanza in disordine. Nessuno parlava. I bambini si arrampicavano sulla poltrona sfondata, si spingevano e cadevano all’indietro e poi ricominciavano. Lui, il padre, stava mettendo la sua biancheria alla rinfusa in due valigie aperte che aveva messo sul tavolo. Tutto appariva ridicolo: la poltrona, i bambini, il padre, il tavolo, le valigie, la biancheria. Per lui, non trovavo una sola parola che corrispondesse alla grandezza della sua vergogna e della loro tristezza. Io sapevo che quella nuova partenza era una falsa uscita di scena. Ero sicuro che aspettasse che sua moglie e i bambini gli chiedessero di restare. Ma loro come me non osavano dirgli niente. La nostra intuizione di poveri sapeva che le parole deformano, sminuiscono i sentimenti, quasi sempre li sviliscono. Alla fine lo serrai nelle mie braccia e lo strinsi forte, fortissimo... Per fargli sentire quanto l’amavamo. Fu allora che sua moglie, nascosta nell’ombra, riemerse dalla stanza in fondo. Vi si era rifugiata come un animale ferito, per mascherare la sua pena, la sua solitudine, la sua miseria. Il suo viso era in fiamme, gonfio, deformato, ma talmente bello, come se nella tristezza il viso dei poveri conservasse quel non so che di fierezza, di volontà di vivere e di amare. Indicando i bambini, disse semplicemente: «Sono tre giorni che la credenza è vuota... Non ho chiesto niente a nessuno». Così aggrediva fatti e dolore, con poche parole incisive. « È venuto a prendere le sue cose. Ora riparte, che ne sarà di noi?». Non era a me che si rivolgeva, ma, indirettamente, a lui. Io stringevo sempre l’uomo tra le braccia. I sette bambini continuavano a giocare nel loro angolo. Attorno a quel tavolo dove si decideva l’avvenire di una famiglia, tutto poteva provocare il dramma: le lamentele della donna, l’indifferenza dei bambini, il silenzio di quell’uomo umiliato... « Rimarrà - dissi -altrimenti non sarebbe tornato». Li condussi in cucina, dove non c’era traccia di cibo né alcun odore di pietanze. Gli ultimi giorni, i bambini avevano raccattato tutto, pulito tutto fino a grattare il fondo della credenza finché il luogo dei pasti non era più da loro ma dai vicini. Questi li avevano accolti a turno, li nutrivano, lamentandosi però per la partenza dell’uomo. Davano la colpa ora all’uno, ora all’altro, come se la disoccupazione non esistesse, come se non avessero provato la fame, come se non avessero provato la vergogna. Ora il silenzio era rotto. Eravamo lì, uno seduto, l’altro in piedi. «Anche io ho sofferto», disse l’uomo. « E noi ?» disse la donna. « Io ho lavorato», ribatté lui. «Allora hai dei soldi ?» Lui non rispose. All’improvviso comprese che se lui fosse ripartito, lei sarebbe rimasta lì senza denaro e che avrebbe supplicato, che avrebbe mendicato, nonostante lo negasse, per far mangiare i suoi figli. Allora, in un singhiozzo: «Ma lo sai che ho venduto una scatola di piselli, per scriverti » Quella scatola era un simbolo, il grido della disperazione, il segno del sostegno che i vicini le avevano dato. Averla venduta, era la rivelazione di un amore insondabile che relega in secondo piano la fame, la sofferenza, la vergogna. Di nuovo non parlavamo più. Era stato detto tutto. Ogni altra parola sarebbe stata inutile. Quando li lasciai, sapevo che lui non sarebbe più partito, che era ormai abbastanza forte per superare gli scherni dei vicini, perché l’uno e l’altra si erano di nuovo ridati l’amore. Sulla soglia, la piccola di sette anni mi teneva per mano e mi dava dei colpetti, come per dirmi «grazie». E io pensavo a quella scatola di piselli venduta a poco più di un franco per comprare un francobollo, per scrivere a quell’uomo che fuggiva la famiglia, per dirgli di tornare in pace, che era ancora amato. Quella dichiarazione d’amore, i bambini l’avevano capita? Credo di sì. Del resto, non avevano bisogno di quella prova: lo sapevano, era scontato che i genitori si amavano. Quale segreto si nasconde nel cuore dei poveri che noi neanche supponiamo? Quale amore può unirli fino a questo punto?»  


Che cosa ci dice quel messaggio, sul tema di oggi: “Miseria e misericordia”? Cercherò di rispondere appoggiandomi su una meditazione dello stesso padre Joseph nel corso di un ritiro spirituale nel 1980, vicino a Lione. Nella nostra vita, quando siamo in mezzo ai poveri spesso siamo presi dai bisogni, sollecitati ad intervenire, agire, fare… e perciò, spesso, le loro parole non arrivano fino al nostro cuore. Ascoltiamo i loro bisogni e non vediamo le loro speranze. Non facciamo nostre le loro aspirazioni. Che cosa faceva correre i malati, i sordi, i muti, i mendicanti dietro a Gesù? Che cosa si aspettavano in risposta al loro grido: «Salvaci, guariscici, Gesù di Nazareth!». Senza dubbio, aspettavano di essere guariti, sognavano un regno in cui gli uomini non avrebbero più avuto fame, in cui la giustizia sarebbe stata stabilita una volta per tutte, in cui l’uguaglianza sarebbe stata la regola dei rapporti fra gli uomini. Era forse ciò a cui essi tendevano, era quello in cui speravano… quando chiedevano al Signore di guarirli, era proprio questo che domandavano al Signore, sia chiaro… Sì, ma chiedevano il perdono… il perdono dei loro peccati, il perdono di Dio. E lo chiedono ancora oggi: in questo mondo desacralizzato, laicizzato, i più poveri hanno mantenuto l’aspirazione alla purezza, alla purificazione.


Questo appello al perdono ci permettere di gettare uno sguardo sulla vita dei più poveri nel suo più profondo, di incontrarli. La loro vita è fatta di ingiustizie. La vita concessa al sottoproletariato, è il frutto di un mondo che dimentica i diritti dell’uomo. È la conseguenza della sordità di coloro che non sentono il grido dei diseredati, della cecità di coloro che non ne vedono la sofferenza, dell’indifferenza di coloro che non amano. La loro vita è una vita minata a causa dell’ingiustizia che pesa su di essa, minata dalla violenza delle dispute, delle ingiurie, delle percosse: eppure hanno troppo bisogno degli altri per potersi permettere di restare in uno stato di rottura permanente! Essi hanno, di conseguenza, continuamente bisogno di riconciliarsi con l’ambiente loro circostante. Hanno senza posa bisogno di perdonare per potere sopravvivere e di sollecitare il perdono. È una necessità vitale per i più poveri. Il che è ben comprensibile: solo il vicino è loro prossimo. Non c’è nessun altro nell’immediatezza dell’ambiente circostante. Le condizioni di vita che sono loro imposte, li costringono a fare appello a coloro che li circondano, a trovare nel vicinato qualche soldo per cavarsi dagli impicci, il pane quotidiano… 


Il perdono dunque, è una maniera di vivere nel mondo della miseria. Forzati a perdonare, i più poveri allo stesso tempo richiedono il perdono. Scrive ancora padre Joseph: «Chiedono il perdono: "Signore, perdona a noi come noi perdoniamo", ha detto Cristo… Come se conoscesse il mondo della miseria, il Signore! Noi perdoniamo e noi abbiamo bisogno di essere perdonati, poiché vivere da sottoproletari, significa anche non sapere crescere i propri figli, non poter predisporre loro un avvenire differente dal proprio. Significa essere logorati dalla malasorte che li stringe o che li aspetta. "Il mio peccato, mi diceva una mamma una sera di un venerdì santo, è di avere messo al mondo dei bambini che domani saranno dei bambini della miseria". Vivere da sottoproletari, significa anche mantenere in fondo al cuore del risentimento, talora persino dell’odio, per una madre che non vi ha amati, e che vi ha abbandonati; per delle suore che sono state dure con voi, implacabili quando eravate bambini;dei educatori ignoranti; dei medici che vi hanno umiliati un tempo. Penso ad un dentista che aveva umiliato mia madre quando noi eravamo bambini e di cui lei mi parlò qualche giorno prima di morire. Più di trenta anni dopo, quel risentimento, quell’odio, talora scorrono nel cuore dei poveri!»


I poveri però non possono vivere di odio e di ribellione.Non possono vivere neppure di disonestà, di menzogna. La vita li costringe sì a dissimulare, a mentire, a rubare, ad ingannare, a fare la commedia, a fare finta. Ma essi ne soffrono, ne soffrono terribilmente. Si sentono vuoti, umiliati, allora si volgono verso la Chiesa. Non possiamo non essere attenti alla richiesta dei miseri: «liberaci dal male». Questo male distrugge i poveri, li sprofonda nell’angoscia, indurisce il loro cuore, li rinchiude in se stessi, li fa bestemmiare. Quante bestemmie devono a noi, perché non sono stati ascoltati! Incontrando i poveri che Gesù Cristo incontrava, avendo gli stessi problemi di quelli che andavano da lui e lo pressavano da tutte le parti, noi non possiamo accettare che degli uomini vivano nel peccato. Non possiamo accettarlo, tanto più che Cristo non l’ha accettato, lui che tutto ha assunto dell’uomo, tranne il peccato.

Si scopre, in questa meditazione di padre Joseph il legame profondo tra miseria e misericordia. Tale misericordia è probabilmente il bisogno essenziale, l'attesa la più profonda dei poveri. Ne hanno bisogno come del pane, del cibo, dell'alloggio. Concluderò riprendendo le parole di un ragazzo povero, che alla fine di un campo estivo al quale aveva preso parte, dice al sacerdote che accompagnava questo gruppo di ragazzi: «padre, ho capito che cosa è la misericordia! La misericordia, dice in francese, è Dio che “lance des cordes vers notre misère”, è Dio che lancia delle corde verso la nostra miseria. Quando mi è stato raccontato quest'episodio mi sono tornate in mente le parole del Signore Gesù: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli».


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