venerdì 26 aprile 2024
Turchia, 5 mesi dopo il golpe. Erdogan tra purghe e riforma costituzionale
di Giorgio Marota
Quaranta mila persone arrestate e 120 mila funzionari pubblici licenziati, tra cui 30mila insegnanti e 4000 magistrati. Intanto lo Stato si sta per trasformare in una repubblica presidenzialista, con ancora più poteri al suo leader
14 dicembre 2016
Quaranta mila persone arrestate e 120 mila funzionari pubblici licenziati, tra cui 30mila insegnanti e 4000 magistrati. Questo il bilancio, in Turchia, a cinque mesi dal tentato golpe del 15 luglio scorso. Le purghe hanno screditato Recep Tayyip Erdogan agli occhi della politica internazionale, ma hanno rafforzato la sua autorità all'interno del Paese e proprio in questi giorni il Parlamento sta discutendo la riforma presidenzialista della Costituzione che lui ha fortemente voluto. In caso di approvazione (che arriverà solo dopo un referendum) il presidente avrebbe due vice, emanerebbe decreti su diritti personali e libertà fondamentali senza bisogno di consultare il Parlamento, nominerebbe direttamente i vertici militari e dell’intelligence, i rettori dell’università, i burocrati di alto livello e le autorità giudiziarie. Non vi sarebbe più la figura del primo ministro e il vincolo di due mandati ripartirebbe dopo l'approvazione della nuova legge; quindi potrebbe rimanere in sella fino al 2029.

Parallelamente sta continuando la dura repressione del governo contro gli avversari politici, o presunti tali, con vere epurazioni di massa. Come riferisce Il Post, dal 15 luglio sono stati arrestati 120 giornalisti e in base a quanto riporta il quotidiano Hurriyet, sarebbero più di 130 gli organi di informazione chiusi perché accusati di far parte della struttura dell’imam Fethullah Gülen, ritenuto la mente del tentato golpe. Nello specifico, come sottolinea l’Ordine dei giornalisti italiano, si tratta di 3 agenzie, 16 canali televisivi, 23 radio, 45 quotidiani, 15 riviste e 29 case editrici. Dal punto di vista economico la situazione non è affatto migliore. «Quelli che continuano a tenere valuta straniera sotto al materasso dovrebbero tirarla fuori e convertirla in lire o oro» ha dichiarato ai cittadini il presidente Erdogan. La richiesta è esplicita: sostenere la moneta locale, che dall’inizio dell’anno si è svalutata del 17% rispetto al dollaro. Un’enormità. Anche se apparentemente Erdogan sta cercando di mostrare agli occhi del mondo uno stato forte e stabile, di fatto la Turchia è in crisi. Dopo il colpo di Stato, il Paese ha subito un deflusso di capitali stranieri di cui invece avrebbe bisogno per finanziare il suo deficit di bilancio e nel frattempo anche le entrate provenienti dal turismo sono crollate: secondo la Banca centrale, nel terzo trimestre dell’anno (giugno-settembre) i turisti sono diminuiti del 32,7% rispetto allo stesso periodo del 2015.

Due situazioni appaiono ora evidenti. La prima riguarda un progressivo allontanamento dall’Europa, la seconda è una deriva autoritaria sempre più evidente. La Turchia lavora da decenni con l’Europa per entrare nell’Ue, ma alla richiesta del Parlamento europeo di far chiarezza sulla situazione politico-sociale dopo il golpe, Erdogan ha risposto: «Ci hanno messi alla porta per 53 anni e comincio a credere che abbiamo vissuto bene senza l’Europa. Inoltre, l'accordo con l'Ue per l'accoglienza dei rifugiati non è stato ancora rispettato. Il sostegno dato finora è di 183 milioni di euro, ma li hanno dati all'Unicef, non a noi. E ce ne devono 6 miliardi». L’altro aspetto, il giudizio politico sull’Erdogan-presidente, è forse quello più contraddittorio.

Molti turchi, come vi abbiamo testimoniato nel reportage dalla città di Istanbul subito dopo l’attentato dell’Isis nel gennaio 2016, credono nel suo operato. A confermarcelo fu una guida turistica locale: «Noi siamo al confine con la Siria, abbiamo paura del terrorismo (come dargli torto dopo l’ennesimo attacco, quello nella notte del 10 dicembre in cui hanno perso la vita 44 persone ndr) e viviamo ogni giorno con il timore di attacchi da parte anche dei curdi. L’Europa non ci vuole, noi non siamo al sicuro e il presidente, con tutte le sue contraddizioni, garantisce stabilità». A quasi un anno di distanza da quel viaggio e a 5 mesi esatti dal tentato colpo di Stato, Erdogan è ancora più forte e gran parte del Paese lo sostiene. La storia – a questo punto difficile dire se buona o cattiva maestra – sta a guardare e ci ricorda, nostro malgrado, che sono nati proprio da ragionamenti simili i regimi autoritari del XX secolo. Buona fortuna, Turchia.
14 dicembre 2016
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