Contaminati dalla moda
Continua la lotta di Greenpeace contro il "fast fashion" che inquina

Lo scorso novembre Greenpeace International ha pubblicato un rapporto dal titolo “Contaminati dalla moda” nel quale viene evidenziato come e quanto alcuni brand di vestiti utilizzino prodotti tossici e in alcuni casi cancerogeni, per produrre i propri abiti, e i risultati sono stati poco rassicuranti. “Le analisi chimiche – si legge nel rapporto – eseguite da Greenpeace su 141 articoli dei 20 principali brand di moda (Benetton, Jack & Jones, Only, Vero Moda, Blažek, C & A, Diesel, Esprit, Gap, Armani, H & M, Zara, Levi, Victoria ‘s Secret, Mango, Marks & Spencer, Metersbonwe, Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Vancl) dimostrano il collegamento tra gli impianti di produzione tessile – principali responsabili dell’avvelenamento dei corsi d’acqua – e la presenza di sostanze chimiche pericolose nei prodotti finali. Per ogni marca, uno o più articoli analizzati contengono NPE (composti nonilfenoloetossilati) che possono rilasciare i corrispondenti nonilfenoli, pericolosi perché in grado di alterare il sistema ormonale dell’uomo.
Come nasce la moda fast? Oltre ai dati, il rapporto spiega anche come, e perché, siamo arrivati alla moda tossica rimarcando gli albori dei vestiti “usa e getta”. Agli inizi degli anni novanta, numerose case d’abbigliamento hanno cercato, e trovato, il modo di incrementare i propri profitti incoraggiando i consumatori a comprare più vestiti e più frequentemente. Come? Abbassando drasticamente i prezzi, e immettendo negli scaffali nuove collezioni ogni mese. Lo sviluppo di mercati a basso costo ha spinto le grandi marche della moda a spostare la loro produzione nel sud del mondo. Zara, H&M, Gap e Benetton, giusto per citarne alcuni, si concentrano sull’accelerazione dei cicli della moda in modo da presentare nuove collezioni anche in mezzo alla stagione. È ormai la norma avere 6-8 stagioni della moda rispetto alle 2-4 classiche.Per avere così tante collezioni è necessario però avere tempi di consegna sempre più brevi e tutto ciò è possibile solo spostando la produzione in estremo oriente, dove per rispettare scadenze sempre più ravvicinate si tagliano i costi del lavoro e si attivano pratiche ambientali irresponsabili.
Tornando alla famosa catena di negozi spagnola, per esempio, essa può mettere insieme una linea di abbigliamento, con tutti i passaggi dalla progettazione alla produzione, anche in trenta giorni. Si stima che in tutto il mondo, ogni anno, vengano prodotti circa 80 miliardi di capi di abbigliamento, l'equivalente di poco più di 11 capi all'anno per ogni persona sul pianeta. Ovviamente la distribuzione di questi abiti non è omogenea tant’è che in alcuni paesi europei le stime parlano di 70 capi d’abbigliamento a persona in un anno, capi che in gran parte dei casi vengono indossati solo una volta e poi gettati via andando così a riempire discariche e inceneritori. Queste quantità enorme e crescente di vestiti amplifica l'impatto ambientale di indumenti durante il loro ciclo di vita, a partire dai grandi quantitativi di acqua e sostanze chimiche (pesticidi) utilizzati per la produzione di fibre come il cotone.
Grazie alla campagna Detox di Greenpeace, alcuni grandi marchi hanno però fatto inversione di marcia e hanno iniziato a imporre controlli rigidi alla loro produzione, avviando così un processo di produzione virtuoso e ad impatto ambientale minimo. Tra questi Zara, Mango, Esprit, Levi's e Benetton. Ora non ci resta che aspettare che gli altri grandi brand della moda facciano lo stesso e indirizzare i nostri consumi verso le marche green.
21 aprile 2013