martedì 6 maggio 2025
Diacono, operaio e padre. Per servire, non per comandare
di Antonino Garufi
Il diaconato permanente è un dono del Concilio. Per viverlo ci vuole fede, umiltà, dedizione
23 novembre 2012

Nato nel dicembre del 1959, nella città di Messina, il diacono Giovanni manifesta ai nostri microfoni la sua esperienza personale e la sua esistenza alla luce delle risposte che gli hanno cambiato la vita...

Ben 17 anni del suo essere diacono a servizio della Chiesa intera, come vede la sua attività pastorale, quella già vissuta e quella attuale?
«Il diacono è colui che nella comunità cristiana è chiamato ad essere immagine di Cristo Servo. È per la nuova realtà, che nasce dal sacramento dell’ordine, che si è configurati a Cristo Servo. A partire da “chi è il diacono”, possiamo parlare di cosa deve fare il diacono. Nei miei 17 anni di servizio diaconale, nell’Arcidiocesi di Messina Lipari Santa Lucia del Mela, sono stato inviato dal mio Vescovo a svolgere servizio in diverse realtà ecclesiali: per diversi anni come direttore dell’Ufficio Diocesano per la Pastorale Familiare e, successivamente, al servizio in quattro diverse parrocchie della mia Diocesi. Sempre in piena collaborazione con i Parroci e in comunione con il Vescovo. Chiamato al servizio e non alla presidenza della comunità. Questo grande scenario della vocazione diaconale è la realtà da comprendere per svolgere quel ministero che potremmo chiamare della soglia. Come diacono sono strettamente legato all’esperienza laicale, in quanto vivo la mia realtà di sposo, padre e operaio in mezzo alla gente, ma, come ministro ordinato, sono ponte per coniugare l’agorà all’aula dove, domenica dopo domenica, la comunità di fede si incontra per celebrare l’Eucaristia.»

Come e cosa ricorda di quel tardo pomeriggio in Cattedrale dell'Arcidiocesi di Messina Lipari Santa Lucia del Mela, del 28 Ottobre 1995?
«Era un pomeriggio di un autunno che stava per iniziare, ma la sensazione non era quella di freddo. Una chiesa Cattedrale stracolma di persone, l’emozione per un “si” che diventava ancora una volta punto di partenza, la presenza di tanti sacerdoti, che ci avevano visto crescere in età e servizio… tutto ciò rendeva calda e accogliente quella serata. Ricordo l’ingresso nella mia cattedrale, lo sguardo di Cristo nel catino dell’abside con il libro in mano, che riporta il passo del Vangeli: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Mt 11, 29). Ricordo la trepidazione di una scelta maturata personalmente e familiarmente. Ricordo lo sguardo incuriosito dei miei figli, allora ancora piccoli. Ricordo l’abbraccio con il mio Vescovo, che a bassa voce mi disse parole che mi riempirono il cuore di gioia. Ancora oggi, ogni volta che entro in Cattedrale, il pensiero e lo sguardo volano a quel giorno e a quella pagina di Vangelo aperta nella mano di Cristo.»

Quali persone da ricordare? Perché le sono state vicine, per essere stato capace di rispondere con il suo "si" con coraggio e coerenza?
«Il “si” detto 17 anni fa è da ripetere giorno per giorno. Un “si” che interpella costantemente il mio modo di essere e vivere, da ministro ordinato, la normale vita di famiglia e lavorativa. Ma questo “si” non avrebbe nessun senso, se non fosse condiviso, non soltanto allora, con chi con me condivide le scelte, le gioie, i sacrifici, le ansie di ogni giorno… mia moglie. Dietro un diacono c’è sempre la silenziosa, ma preziosa presenza, di una moglie, che a volte è chiamata a donarsi in modo particolare al servizio di Cristo e della sua Chiesa.»

Cosa l'ha colpita maggiormente nel suo rapporto con il mondo (amici, parentela e fedeli) dopo essere stato ordinato diacono?
«L’incomprensione della scelta. Anche se in modo diverso, spesso non viene compresa la necessità di un ministero ordinato che non sia il prete o il Vescovo. La domanda più frequente, in questi anni, è stata: “Ma tu cosa puoi fare?”. Il fare che a volte snatura la vera essenza di questo dono che il Concilio Vaticano II ha voluto fare alla Chiesa nella sua forma “permanente”.»

Quanto pesa in responsabilità quella dalmatica che indossa ogni volta che prende parte ad una celebrazione eucaristica?
«La “dalmatica” in sé non è pesante, anzi nel momento in cui si indossa non dà nessun appesantimento particolare. È quando si torna in sacrestia, quanto la dalmatica viene smessa, che se ne sente il peso, la responsabilità. È la testimonianza che siamo chiamati a vivere fuori le mura, che può diventare pesante. Può diventare un rischio il pensarsi “diversi”, pensarsi “migliori” perché diaconi. Nella quotidianità siamo chiamati a testimoniare, come ogni battezzato, l’amore e le meraviglie che il Signore ha riversato su di noi.

Sposo e Padre (di tre figli), operaio in una centrale termoelettrica Edipower/A2A, baccalaureato in teologia e con una parrocchia da servire, come fa a coniugare queste tre sue attività esistenziali?
«Non tutto è iniziato insieme. Lavoro presso una centrale elettrica da quasi trentatré anni, quando ancora non conoscevo la persona che poi diventò mia moglie, 27 anni fa. Poi la nascita dei figli, poi la chiamata del Vescovo ad un servizio più impegnativo nella Chiesa, poi gli anni di formazione ed infine l’ordinazione. Aver risposto a Dio che mi ha chiamato, indegnamente, al servizio della Chiesa e dei fratelli, non può non essere parte integrante della mia vita. Di conseguenza ogni scelta, ogni decisione, viene presa considerando tutto ciò che la famiglia è chiamata a vivere. Cercando di vivere in comunione fra tutti i membri della mia famiglia, facciamo le scelte che ci sembrano più opportune. Non sempre riusciamo a fare centro, ogni tanto qualcuno è meno contento, ma penso siano dinamiche che, più o meno, ogni famiglia vive.»

Che "ruolo" ha giocato sua moglie in questa scelta di vita, prima come sposo e poi come diacono?
«Dal giorno che mi sono sposato con Isabella, ogni scelta è diventata scelta familiare. Ogni decisione viene presa dopo esserci confrontati come coniugi. La scelta di rispondere il “si” a Cristo è stata una di quelle scelte, che anche se richiedeva una risposta personale, è stato motivo di riflessione familiare. Abbiamo maturato insieme la scelta verso il diaconato, ben cosci che avremmo dovuto rivoluzionare buona parte delle nostre “abitudini”. Certamente se oggi posso servire la Chiesa è perché ho sempre trovato in Lei un sostegno.»

I suoi figli? Sono stati sempre d'accordo con il suo essere sull'altare in camice e stola trasversale?
«Al momento dell’ordinazione avevamo due figli, Ester di nove (9) anni e Tonino di quattro (4) anni, non era ancora nata Giuditta che il buon Dio ci donò nel 2003. L’impatto sui figli quindi è stato diverso, la prima andava alle elementari e aveva compreso, nei limiti dell’età, ciò che stava accadendo in famiglia, per il ragazzo fu molto naturale. Non nego che probabilmente ci furono momenti in cui i figli hanno dovuto dare spiegazioni di cosa facesse il proprio papà sull’altare e per di più vestito “come il prete”. Ma l’aspetto liturgico non è stato mai quello centrale nel mio ministero, quindi lo stare accanto a loro nei momenti forti della loro vita ha portato ad ammortizzare gli attriti, che potevano nascere fuori casa. Per la più piccola, ad oggi, non c’è stata nessuna difficoltà particolare. Probabilmente, ma non è questa la sede per discuterne, ci sarebbe da rivedere la formazione del candidato al diaconato, pensando anche a chi, con lui, condivide la quotidianità.»

Continua a curare ancora la sua formazione personale e culturale? Se si, come?
«Diceva qualcuno che… gli esami non finiscono mai!!! È vero, ancora oggi continuo nella mia formazione universitaria, dovrei conseguire la Licenza in Sacra Teologia con specializzazione in Catechetica presso l’Istituto Teologico San Tommaso di Messina, e sto conseguendo il Master in “Coordinatori dell’Animazione Catechistica Diocesana” presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma. In pratica … mi tengo allenato!!!

Cosa direbbe ai ragazzi, giovani e adulti che incontrano Cristo in una scelta di vita così impegnativa?
«Non ho molto da dire. Semplicemente di tenere le “orecchie” attente alla chiamata del Signore, qualunque essa sia, sia alla vita consacrata che a quella matrimoniale. In particolar modo mi piace ricordare ai giovani, e a me stesso, che se sarò capace di dare cento (100) posso essere certo che riceverò diecimila (10000) già da oggi. Queste non sono parole mie, ma Qualcuno a cui devo tutto me stesso.»

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