giovedì 25 aprile 2024
Diventeremo tutti cyborg?
di Maria Grazia Tripi
Uno scienziato giapponese, Hiroshi Ishiguro, sostiene che il processo di evoluzione umana consiste nel passaggio dall'organicità all'inorganicità. Ne abbiamo parlato con Cristiana Freni.
12 marzo 2019

Cyborg un termine che indica nel linguaggio della fantascienza, secondo quanto riporta il dizionario Treccani online, un «automa dalle inesauribili ed eccezionali risorse fisiche e mentali, ottenuto con l’innesto di membra e organi sintetici su un organismo umano vivente». Si tratta, davvero, di fantascienza? A che punto siamo arrivati?

 

Un cyborg è più di un androide (un robot con forma umana) ed è immaginato e pensato da alcuni studiosi come parte del processo di evoluzione dell’uomo. Hiroshi Ishiguro, docente giapponese dell’Università di Osaka, considera superficiale l’idea di separare umani e robot. Le sue considerazioni partono dal concepire la differenza tra l’uomo e gli animali solo nell’uso della tecnologia. «Senza la tecnologia l’uomo sarebbe solo un animale», afferma Ishiguro. In un futuro remoto, secondo lo studioso, gli esseri umani diventeranno una forma di vita intelligente ma inorganica. Anche il cervello potrebbe essere sostituito da un computer. L’evoluzione umana, quindi, sarà diventare inorganici. Il processo di evoluzione che stiamo vivendo è di trasformazione dall’organico all’inorganico.

Queste le idee che lo scienziato giapponese, celebre per aver realizzato una copia di sé stesso, esprime con la sicurezza naturale di chi parla di una realtà futura certa ed evidente. Le considerazioni di Ishiguro partono dalla situazione sociale in Giappone, caratterizzata da un elevato numero di anziani e bassa natalità. Chi si prenderà cura degli anziani? La soluzione più “evidente” è data dall’impiego di robot. Vi sono risultati sperimentali che mostrano, afferma lo stesso Ishiguro, che il grado relazione stabilito tra anziani e robot è molto soddisfacente. La ricerca è giunta a sperimentare anche robot programmati per accompagnare alla morte le persone lasciate sole.

 

La coscienza? Le emozioni? I sentimenti? La creatività? L’uomo?  Tanti sono i punti interrogativi che si aprono a queste affermazioni. Ma è davvero possibile? È etico? Fino a che punto è lecito spingersi? Chi è l’uomo in tutto questo?

I cambiamenti tecnologici del passato hanno avuto un impatto sulla percezione dell’uomo rispetto al proprio essere, che si dispiegava in un arco di tempo tale da riguardare più generazioni. Oggi tale impatto è intragenerazionale. La conseguenza di questo è che l’uomo non ha il tempo di metabolizzare i cambiamenti. Ecco perché è quanto mai urgente e attuale chiedersi quali sono le premesse antropologiche e filosofiche per comprendere la complessità del fenomeno.

 

Ne abbiamo parlato con la professoressa Cristiana Freni, filosofa e docente di Filosofia del Linguaggio e Letteratura contemporanea presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione Sociale dell'Università Pontificia Salesiana a Roma.

«La prima considerazione da fare è che ci sono degli antropoidi che assumono le caratteristiche dell’epifenomeno umano, ma che non possono essere considerati realtà antropologiche. La questione centrale, quindi, non è l’utilità del robot, ma la coscienza con cui il robot opera. Per cogliere bene la domanda antropologica, inoltre, è necessario spostare il focus dall’epifenomeno. La robotica è una realtà antica. Già nel rinascimento si trovano tentativi dell’uomo di prolungare sé stesso. Anche quando i robot ci daranno delle performance nell’epifenomeno sempre più umane e versatili, le domande di natura filosofica che è necessario farsi sono: il robot quando fa tutte queste cose ha coscienza e consapevolezza di farle? C’è un fondale nel robot che esso riconosce come parola chiave dell’antropologia che è l’io?»

Altro elemento cruciale per Cristiana Freni sono le attività spirituali. Esse, infatti, «non sono solo quelle legate alla religiosità, ma quelle nelle quali l’uomo è capace, come diceva Eugenio Fizzotti, "di prendere consapevolezza e posizione rispetto alle situazioni esterne". Parliamo di attività come astrarre, pensare, riflettere, decidere, conoscere consapevolmente, avere domande di senso radicale come dove vengo, dove devo andare, che cosa posso sperare? Tutto questo ci mette davanti a questioni bioetiche enormi. Il tutto scientificamente possibile non è automaticamente il moralmente giusto».

 

Infatti, facendo riferimento al filosofo Romano Guardini, continua la docente, «se l'uomo continua a tenere separati l'ordine tecnologico-scientifico dall’ordine sapienziale-veritativo si rischia di assolutizzare il potere della tecnologica e allora tra pochi anni ci troveremo professori all'università che sono robot, avremo operatori sanitari androidi, che ci accompagneranno anche nel momento della morte».

In questo contesto diventa difficile parlare di empatia. «Questa tematica è stata profetizzate dal cinema italiano in un film di Alberto Sordi intitolato "Io e Caterina", un robot con cui il protagonista della storia, un ricco borghese, sembra iniziare un rapporto talmente tanto relazionale da surrogare in maniera assolutamente perfetta le carenze affettive primarie che lui registrava nella sua vita. Alla fine del film, però, c'è un corto circuito non previsto e Caterina prende il sopravvento sull’umano, non perché diventa violenta nel senso primitivo del termine, ma perché sembra voler tiranneggiare in termini assoluti quello che deve fare il suo padrone fino alla sostituzione dei ruoli. È un film in cui si vede proprio l'inganno empatico del robot, cioè, il fatto che l'uomo ha una tale fame di relazione e una tale fame di essere compreso, di essere accettato, che si affeziona al robot cadendo nell’inganno di crederlo uomo».

 

La “chiacchierata” filosofica con la professoressa Freni è stata intensa e caratterizzata dal desiderio sempre presente di far emergere quell’unicità dell’uomo che realizza pienamente sé stesso quando connota il proprio fare a partire dall’essere. La tecnologia grazie all’uomo può tutto e potrà fare sempre di più, e se fosse proprio l’uomo a doverle dare un freno? Un’antica storia narra di un uomo e una donna che ad un certo punto hanno deciso di fare a meno del creatore e se lo stesso accadesse tra robot e uomo? Non può essere la paura a determinare la scelta dell’uomo in rapporto alla tecnologia…ma le storie insegnano.

 

Credit fotografico: Immagine tratta da https://www.flickr.com/photos/turatti/  Creata da Digitalmania group

 

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