Giulia Guglielmi è una studentessa di medicina al quarto anno presso l’Università degli studi di Milano-Bicocca. Tra l’agosto e l’ottobre del 2018 ha deciso di intraprendere un’esperienza di Erasmus presso "Universidade Do Estado Do Amazonas”, che si trova a Manaus in Brasile. Sotto il consiglio di alcuni suoi colleghi più anziani, che avevano già lavorato in questo centro, Giulia ha deciso di scegliere questa destinazione, in quanto quel posto era unico dal punto di vista professionale. Era un ospedale interamente dedicato alle malattie infettive e alla medicina tropicale, e trattava di patologie che in Italia non erano minimamente presenti.
I PERICOLI
Prima di partire, i genitori di Giulia erano molto preoccupati del suo viaggio. Loro immaginavano Manaus come una città nel mezzo della Foresta Amazzonica, con tutti i vari pericoli dovuti alla presenza di animali tropicali e pericolosi. «La verità è che Manaus ha 2 milioni di abitanti e lì il vero pericolo non sono gli animali selvatici ma è la criminalità, che è ben presente in tutto in Brasile, ma in questa città è superiore rispetto alla media nazionale. In più, in questa metropoli vi è la confluenza tra il Rio Grande e il Rio delle Amazzoni, e quindi c’è un’umidità al 90% in tutte le stagioni dell’anno».
Arrivata allo studentato di Manaus, Giulia si affida ai suoi colleghi brasiliani: «Dovrò ringraziarli a vita per come mi hanno accolta e trattata, è come se fossi stata una loro sorella minore», dice. In più si era fatta spiegare tutti i rischi del posto, chiedendo dei suggerimenti per evitare di trovarsi in mezzo a situazioni spiacevoli: «Dopo le 18:00, era sconsigliatissimo uscire per strada a piedi, perché rischiavi di essere aggredito, scippato, o ancora peggio di essere sfregiato con delle lame. E se per un portafoglio rubato il problema era minore, una ferita da lama ti avrebbe costretto poi ad andare in ospedale a fare gli esami per l’antitetanica e la profilassi contro l’HIV. Per fortuna durante la mia esperienza non è mai accaduto nulla di simile».
Anche un banale spostamento di 15 minuti dallo studentato all’ospedale era considerato molto rischioso: «Tutte le mattine per andare al lavoro prendevo l’Uber. Erano sconsigliati i mezzi pubblici, perché venivano assaltati spesso, e pure i taxi perché non erano tracciati. Inoltre io abitavo in una palazzina avvolta dal filo spinato di un quartiere borghese, con guardie armate all’ingresso, che garantivano una sicurezza di 24 ore al giorno».
L'ESPERIENZA
Inizialmente Giulia ha fatto tanta fatica ad ambientarsi nell’ospedale, per via della lingua. I medici brasiliani non sapevano l’inglese e lei non sapeva il portoghese, quindi non riuscivano a comunicare tra loro. Poi è stata affiancata da alcuni medici appartenenti a famiglie abbienti, che avevano studiato l’inglese e che le facevano da interprete. Dopo un mese è riuscita ad essere autonoma, imparando la terminologia di base della medicina.
In questi 2 mesi e mezzo Giulia ha lavorato sia nel pronto soccorso che in chirurgia d’urgenza. Come interventi chirurgici, quelli realizzati da lei più spesso sono stati le amputazioni di arti. Tra le molte patologie, quella che ha trovato a dismisura è stata l’AIDS: «in Brasile c’è tantissimo HIV già dalla fase precoce di età, con ragazzi di 25 anni con un AIDS in fase di immunodeficienza terminale. Tutto questo avviene per le poche diagnosi precoci che vengono fatte».
In questi mesi inoltre, c’è stata una situazione che ha messo Giulia in grossa difficoltà: «è stato un caso clinico di un paziente che non riuscivo ad individuare in tutte le patologie che avevo studiato, ed ero parecchio arrabbiata con me stessa. Gira e rigira con la possibile diagnosi, e alla fine questo paziente aveva la lebbra, una malattia che da noi non esiste più».
L’episodio che l’ha sconvolta di più, e che tutt’ora le torna in mente spesso, è stato il decesso di un paziente di 34 anni: «Un ragazzo giovane con 2 figli, che faceva l’insegnante d’inglese. Con lui riuscivo a comunicare facilmente e si era creato un bel rapporto. Il paziente era nel reparto di malattie infettive per una Epatite C, ed aveva una sospetta ascite a livello addominale. Si pensava che questa fosse dovuta all’epatite C, ma poi si è scoperto che si trattava di un tumore all’intestino. Il rimpianto è che era passato troppo tempo tra il ricovero e TAC, e che il paziente, se operato d'urgenza, avrebbe potuto salvarsi. Un caso clinico difficile e gestito nella maniera peggiore, che mi ha creato un sacco di rimpianti che tutt’ora mi sto portando dietro».
UN BILANCIO POSITIVO
Questa esperienza professionale, si è rivelata molto utile per Giulia soprattutto dal punto di vista della responsabilità: «In Brasile gli studenti di medicina gestiscono il reparto in maniera autonoma e sono più responsabilizzati di noi italiani. Io ho imparato molto da loro, dal punto di vista medico e chirurgico. In 2 mesi ho svolto molti interventi chirurgici da secondo operatore, mentre in Italia avrei dovuto aspettare la specializzazione per avere una tale responsabilità. In più in Brasile non ci sono problemi legali come in Italia, dove abbiamo una medicina più difensiva. Là i pazienti si mettono nelle mani dei chirurghi e raramente sporgono denuncia in maniera inappropriata».
A 5 anni dalla sua esperienza, Giulia si è laureata ed è all’ultimo anno di specializzazione di cardiochirurgia pediatrica. Ad oggi ricorda molto volentieri il suo periodo brasiliano e spera di poterne vivere degli altri simili, magari in missioni umanitarie: «Un’esperienza del genere, da studentessa di medicina, mi è stata molto utile per la formazione e mi ha aiutato ad essere versatile, uscendo dalla mia zona di comfort. Con questi ragazzi sono rimasta in contatto, e anche se non ci siamo più rivisti ci sentiamo spesso ancora telefonicamente. Se in un futuro molto ravvicinato mi proponessero delle missioni fuori dall’Europa io non mi tirerei indietro per nessun motivo al mondo. Per una persona giovane, che ha l’opportunità di aiutare le persone più bisognose e in difficoltà in giro per il pianeta, penso che non ci sia soddisfazione più grande di vedere poi queste persone continuare a vivere ed essere felici».